SPECIALE MAGGIO –
Chiara ha 20 anni e una sindrome dal nome complicato (di Mayer-Rokitansky-Küstner-Hauser o MRKH) che l’ha fatta nascere senza utero.
Significa che non potrà mai avere figli suoi: per lei, un macigno psicologico pesantissimo da portare. Per questo attende con grande speranza l’esito dei trapianti di utero effettuati di recente in Svezia dall’équipe del ginecologo Mats Brännström, della Sahlgrenska Academy di Gothenburg. Se avessero successo, Chiara si candiderebbe subito all’intervento.
Negli ultimi due anni, Brännström e colleghi hanno praticato nove trapianti di utero da donatrici viventi – madri o altre parenti delle riceventi – e poche settimane fa il medico ha annunciato di aver trasferito in quattro delle donne con il “nuovo utero” i loro embrioni ottenuti in precedenza con fecondazione in vitro. Al momento non si sa nulla di più, ma è chiaro che tutti aspettano di vedere se ci saranno gravidanze e come andranno a finire, perché è questa la vera sfida, il vero banco di prova per il trapianto dell’utero.
Non basta che riesca l’intervento e che l’organo venga accolto bene dalla ricevente: la sua funzione è portare a termine una gravidanza e, se questo non accade, di fatto il trapianto sarà stato inutile.
Quelli svedesi non sono stati i primi interventi di questo tipo. Già nel 2000 era stato annunciato un trapianto in Arabia Saudita, finito però male: l’utero era andato incontro a una pesante trombosi ed era stato rimosso definitivamente.
È andata un po’ meglio per un intervento eseguito in Turchia nel 2011, con trapianto da cadavere: l’organo è stabile ed è riuscito nel tempo ad accogliere due gravidanze, che purtroppo non sono andate a buon fine, interrompendosi dopo qualche settimana. Anche altre équipe nel mondo sono al lavoro per raggiungere l’obiettivo: per esempio quella di Richard Smith, nel Regno Unito, che ha anche dato vita a un’associazione no profit per raccogliere fondi per la ricerca sul tema, la Womb Transplant UK. E naturalmente c’è tutto il filone della sperimentazione sugli animali: nel 2010 lo stesso Brännström aveva annunciato la nascita dei primi cuccioli di ratto cresciuti in un utero trapiantato e nello stesso anno anche una pecora “trapiantata” aveva partorito un agnellino sano. Più recenti i tentativi con i primati, che però sono ancora limitati.
Tutto questo fermento riflette sia innovazioni tecniche sia un cambiamento culturale nel modo di considerare l’apparato riproduttivo femminile. «Fino a non molto tempo fa tutta l’attenzione era concentrata sulle ovaie» afferma Luigi Fedele, direttore del Dipartimento della donna, del bambino e del neonato del Policlinico Maggiore di Milano e responsabile del Centro di riferimento sulle anomalie congenite rare dell’apparato genitale femminile della clinica Mangiagalli. «Oggi, grazie al congelamento degli ovociti, che permette di preservarli prima di trattamenti chirurgici o farmacologici che potrebbero danneggiarli, c’è meno pressione sulle ovaie e consideriamo l’utero come l’organo più importante dell’apparato».
È dunque sull’onda di questo interesse crescente che si colloca il lavoro di Mats Brännström, descritto in un articolo pubblicato a febbraio sulla rivista Fertility and Sterility. Vediamo dunque qualche dettaglio: gli interventi, dicevamo, hanno riguardato nove coppie di donatrici (età media di 57 anni) e riceventi (età media 31 anni). Prima di entrare in sala operatoria, tutte le partecipanti (e i partner delle riceventi) hanno affrontato tantissimi colloqui e consulenze con vari esperti, perché fossero ben chiari alcuni aspetti fondamentali: tanto per cominciare le alternative possibili al trapianto, vale a dire adozione e maternità “surrogata” (il cosiddetto “utero in affitto”, che però non in tutti i paesi è legale. In Italia come in Svezia, per esempio, non lo è). E poi, la natura sperimentale e di ricerca dell’operazione, i rischi connessi, le possibilità di fallimento. Alle riceventi sono stati prelevati ovociti per le procedure di fecondazione in vitro: il nuovo utero, infatti, non sarebbe stato collegato alle strutture anatomiche dove vengono rilasciati gli ovociti maturi, con impossibilità di una fecondazione naturale.
Infine, l’operazione: tutto sommato veloce per le riceventi (4-5 ore), ma lunghissima – dalle 10 alle 13 ore – e piuttosto complessa per le donatrici. «Perché il trapianto abbia successo, infatti, è necessario prelevare non solo l’utero, ma anche il più possibile dei vasi che lo irrorano, il che complica le cose anche in termini di rischi per le donatrici stesse» spiega Fedele. «Per questo, probabilmente il futuro per i trapianti di utero sarà con donazione da cadavere. Anche se in questi casi la priorità viene data a organi salvavita come il cuore, infatti, le tecniche di perfusione permettono comunque di mantenere l’utero in buone condizioni abbastanza a lungo». Nel caso della sperimentazione svedese, in realtà, la scelta della donazione da vivente è stata obbligata dalle circostanze: il comitato etico della Sahlgrenska Academy, infatti, aveva dato l’ok a procedere purché gli interventi venissero effettuati durante i fine settimana, in sale operatorie normalmente chiuse nel week end. Ma se si aspetta un organo da cadavere non si può sapere in che giorno arriverà. Né si è certi, in questo caso, di riuscire a riunire in fretta tutta l’équipe internazionale di chirurghi prevista per l’operazione.
A conti fatti, comunque, i trapianti di Brännström e colleghi sembrano andati bene: nel report pubblicato a distanza di sei mesi, i medici riferiscono che è stato necessario asportare due degli uteri trapiantati a causa di una trombosi e di un’infezione (e – va detto – con notevole sofferenza psicologica delle donne che solo per poco tempo hanno potuto avere quell’organo che tanto avevano desiderato). Gli altri sette uteri si sono comportati bene, alle donne che li ospitano sono comparse le mestruazioni e in quattro casi è stato già possibile procedere con il trasferimento degli embrioni. Se tutto andrà bene, i bambini nasceranno con parto cesareo.
Ora, dunque, occhi puntati sui passaggi finali di questa avventura. Da parte della comunità medica, ma anche e soprattutto delle donne che per varie ragioni non hanno o non hanno più un utero, ma proprio non si rassegnano all’idea di non poter portare in grembo un figlio loro. «È inutile negarlo: per molte di noi con la sindrome MRKH questo è un chiodo fisso, un pensiero costante, una mancanza che pesa tantissimo» afferma Maria Laura Catalogna, che ha da poco dato vita a un’associazione italiana per diffondere conoscenza sulla sindrome, che colpisce all’incirca una ogni 5000 nate. Oltre a loro, ci sono le tante donne in età fertile che hanno subito l’asportazione dell’utero per un tumore o per complicazioni post-parto: in tutto, si stima siano circa 200.000 in Europa. Certo, non tutte sarebbero disposte ad affrontare un iter così pesante come quello di un trapianto, che per di più sarebbe temporaneo. Già, perché accogliere un organo di un’altra persona significa dover seguire una terapia con farmaci immunosoppressori per evitare il rigetto, terapia che non è priva a sua volta di effetti collaterali. Per questo, se non si ottengono gravidanze in tempi ragionevoli o dopo una o due gravidanze andate bene, la prospettiva è quella di rimuovere l’utero trapiantato. «Eppure l’interesse per questo tipo di intervento sta crescendo e comincia a esserci una certa richiesta» sottolinea Fedele.
Come con tutte le procedure innovative, però, rimangono ancora aperti moltissimi interrogativi, a partire dai possibili rischi per il feto. La prima preoccupazione riguarda i farmaci antirigetto: se è vero che ormai sono molti i bambini nati da donne che hanno subito un trapianto di organi e che dunque hanno assunto immunosoppressori per tutta la gravidanza, è anche vero che questa condizione non è ottimale. Gli studi scientifici dicono infatti che è associata a un aumento di fattori di rischio per la gravidanza stessa (come diabete gestazionale o alta pressione materna) e a un aumento del rischio di aborto precoce e parto prematuro. Ma non è solo questo: c’è anche chi pensa che l’utero trapiantato potrebbe non funzionare perfettamente e e portare a difetti nella formazione della placenta o nell’irrorazione sangugina che potrebbero compromettere lo sviluppo embrionale e fetale.
E naturalmente ci sono tutte le problematiche etiche. Lasciando da parte la delicata questione della donazione da vivente, il punto è che stiamo parlando di un trapianto che di sicuro migliora la qualità della vita della ricevente, ma non serve a salvargliela. Si dirà che esistono anche altri trapianti non salvavita, come quelli di faccia o di mani, ma alcuni ritengono che non siano esattamente paragonabili, perché mentre un volto sfigurato impedisce di fatto una vita normale, ci sono tantissime persone (fertili o non fertili) che riescono a condurre una vita piena e soddisfacente pur senza aver avuto gravidanze proprie. E in ogni caso c’è una questione di costi: fatto salvo in linea teorica il principio dell’equità e dell’uguaglianza di tutti e del diritto di tutti ad accere alle tecniche più innovative per soddisfare quel principio, passando alla pratica è giusto dedicare risorse pubbliche a interventi di questo tipo? Non si corre il rischio di sottrarle a interventi più necessari?
Domande su cui è importante riflettere, naturalmente. E chissà che un giorno non sia chiamata a farlo anche l’Italia. «Per ora non sono mai arrivate richieste di trapianto di utero» sottolinea Alessandro Nanni Costa, direttore del Centro Nazionale Trapianti (Cnt). «Se arriveranno, trattandosi di un intervento ancora non consolidato bisognerà seguire un iter particolare: la richiesta andrà indirizzata al Ministero della Salute che si esprimerà dopo aver sentito il Cnt e il Consiglio superiore di sanità. E potrebbe essere coinvolto anche il Comitato nazionale di bioetica».
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